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Sciopero dei trasporti, città in tilt. Ma chi paga?

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busUn giornata di ordinaria follia. Roma in tilt per lo sciopero nazionale dei trasporti. Il film è sempre lo stesso: caos traffico e pendolari a piedi. Scene che ormai si ripetono spesso, troppo spesso. Testimonianza diretta per una che come me, ogni giorno si fa venti chilometri in autobus all’andata (lavoro) e venti al ritorno (casa) . Nessun problema, c’è l’autobus – mi sono detta quando ho comprato casa sulla Nomentana -, ma la certezza delle origini ha lasciato ben presto il posto all’incertezza del quotidiano. Già, perché sai quando parti, cioè quando esci da casa, ma non sai quando arrivi: e questa è la regola con la quale migliaia di persone devono fare i conti tutti i santi giorni.

La puntualità degli autobus è diventata un’opzione, per non parlare delle corse saltate che quando capita, è veramente l’apoteosi di una giornata cominciata male. Stai in balìa di chi doveva esser già lì, davanti alla palina o al capolinea, e non arriva. Chiedi informazioni ma la risposta è sempre la stessa: “A signò, c’è sta er traffico”. Un clichè, tanto che è inutile chiedere.

E’ diventata un’opzione pure il tempo che il ‘torpedone’ grigio-rosso impiega per portarti a destinazione. E qui entra in gioco un’altra incognita che, in realtà è ormai una certezza: il traffico. Ci sono giorni pazzeschi nei quali oltre all’autobus strapieno di persone, c’è un groviglio di auto, scooter, furgoni che arrancano sull’asfalto. Ingorghi al semaforo, ingorghi ovunque: un girone infernale. E tu sei lì, chiusa in una scatoletta di metallo, compressa come una sardina che stringi i denti e dici, dai che siamo quasi arrivati. Una sorta di training autogeno più che una realtà, come il buongiorno. Sulla palina alla fermata o sul sito di Atac è segnalato che per fare il mio tragitto quotidiano, il tempo di percorrenza è di trenta minuti. Ok, mettiamoci pure sopra altri dieci-quindici minuti per il rebus traffico, ma la media si attesta sull’ora.

Il giorno dello sciopero cambia tutto, in peggio ovviamente. Ci sono le fasce protette, d’accordo, ma non tutte le persone possono mettere la sveglia tre ore prima del d-day e nel pomeriggio non tutti possono uscire dal lavoro prima, cioè in tempo per riprendere l’autobus e stare nelle tre ore consentite. E allora ti affidi alla speranza, ma intanto aspetti alla fermata: mezzora, un’ora, sforzandoti di scorgere tra la selva di lamiere che si muovono sull’asfalto quel ‘torpedone’ grigio-rosso che ti viene a prendere, seppure con un ritardo mostruoso.

Sei lì, insieme ad altri a lamentarti dei disagi, a protestare a dire che non è giusto, ma intanto quei disagi li subisci tutti. Poi, come per miracolo arriva l’autobus; uno che si muove su decine rimasti in deposito. E allora, quell’autista ti sembra un eroe, ti senti di ringraziarlo perché almeno una possibilità di raggiungere la tua amata scrivania ce l’hai.

Lo sciopero è un diritto, per carità, ma il punto non è questo. Il punto è che a Roma lo sciopero dei mezzi pubblici è una costante. Ho fatto un calcolo, subendo la situazione da pendolare: una volta al mese e in qualche caso pure due, l’autobus non passa. E la gente aspetta, si arrabatta, si organizza come può. E’ giusto? E chi rimborsa i cittadini che regolarmente pagano 35 euro al mese di abbonamento per muoversi? Se lo sciopero è un diritto, le autorità preposte – come si dice in questi casi – dovrebbero saper coniugare il diritto dei lavoratori di incrociare le braccia con quello dei cittadini di andare al lavoro, in ospedale, ovunque. E visto che tra un mese si vota a Roma, i candidati sindaco farebbero bene a mettere il problema nella lista delle cose da fare e risolvere, non solo da dire o promettere.

Perché i diritti sono tutti uguali. O almeno, dovrebbero esserlo.


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